Il Nuovo Codice di Protezione civile e gli animali
di Marco Leonardi, medico veterinario.
Con il Decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018 è stata attuata la delega della Legge 30 del 16 marzo 2017 per il riordino della protezione civile. Tra le novità più evidenti introdotte dalla norma c’è l’inserimento del soccorso e dell’assistenza agli animali tra gli obiettivi del servizio nazionale della protezione civile. Per la prima volta, a livello mondiale, gli animali sono esplicitamente inseriti in una legge che riguarda la preparazione e la risposta a catastrofi naturali o di origine antropica.
Per i pochi che coltivano un po’ di memoria storica (grazie anche a presidi come il CERVENE) la relazione tra protezione civile ed animali non è esattamente una novità. A partire dall’esperienza del 1980, e anche senza andare lontano dal nostro Paese, sono numerose le esperienze di assistenza e soccorso agli animali in corso (o in previsione) di eventi calamitosi. Le attività di tutela della salute degli animali sono già parte integrante degli obiettivi della risposta sanitaria nelle emergenze non epidemiche, come sancito dal Decreto del Ministero dell’Interno del 2001, emanato d’intesa con il Ministero della salute e con le regioni, sull’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi. La tutela del benessere degli animali è anche uno degli obiettivi del piano di settore elaborato nell’ambito della pianificazione nazionale delle aree vesuviana e flegrea.
Ciò premesso, sarebbe sbagliato derubricare la novità legislativa a mera formalizzazione di uno stato di fatto.
L’interesse per il destino degli animali nell’ambito di situazioni di crisi storicamente ha origine nella preoccupazione di salvaguardare una risorsa vitale per la vita delle comunità. L’eruzione del vulcano Laki, in Islanda, nel 1783-1784 provocò una tale mortalità tra il bestiame dell’isola, all’epoca poverissima e isolata, da scatenare una carestia che, secondo alcune stime, uccise un quarto della popolazione locale.
Con l’evoluzione della biologia e della medicina, ci si è preoccupati degli animali come possibile fonte di pericolo per la salute umana: le zoonosi e le malattie trasmesse attraverso gli alimenti di origine animale. Anche se non esiste una sistematica relazione tra i disastri naturali e l’incidenza delle malattie trasmissibili, le condizioni ambientali provocate da un evento calamitoso possono favorire la diffusione di alcuni microrganismi patogeni (anche zoonotici).
In tempi più recenti la società ha cominciato a prendere in considerazione il valore affettivo e sociale degli animali. Sono stati condotti degli studi sul contributo degli animali da affezione al rafforzamento della capacità di reagire alle conseguenze di un disastro. Inoltre, come nel caso dell’uragano Kathrina, negli Stati Uniti, si è visto che molte persone si rifiutano di lasciare l’area a rischio senza i propri “pet”, o addirittura ritornano indietro per recuperarli. Pertanto, se le condizioni lo consentono, ci si deve occupare anche degli animali (in questo caso, soprattutto animali da affezione). E, come già ricordato, nel nostro Paese, anche in situazioni di emergenza, questo viene fatto da quasi quaranta anni, e con risultati più che accettabili.
Perché allora il Decreto costituisce una novità? Perché la nuova normativa di protezione civile, di fatto, dice che agli animali si deve prestare soccorso, non perché ci nutrono, non perché ci fanno guadagnare, non perché ci fanno stare bene, e nemmeno perché li amiamo: li dobbiamo soccorrere in quanto ne hanno diritto. Del resto, sono trascorsi quasi quaranta anni dalla dichiarazione dei diritti dell’animale di Parigi. E più di dieci anni dalla firma del Trattato di Lisbona, che regola il funzionamento dell’Unione Europea e definisce gli animali “esseri senzienti”. Molte amministrazioni comunali utilizzano il termine “cittadini non umani” riferendosi alla fauna urbana, domestica e non. Al di là delle sfumature linguistiche, il senso è che gli animali sono portatori di diritti. Si tratta di un punto di arrivo di un’evoluzione culturale, ma anche di un punto di partenza. Si apre una grande prospettiva, ma anche una grande sfida. Non possiamo affrontare questa novità con gli strumenti di ieri.
Si può ipotizzare una lista dei temi sul tavolo, (vedi box a fianco) in ordine rigorosamente sparso, sulla base delle esperienze recenti e meno recenti:
- attività di ricerca e soccorso degli animali;
- gestione della fauna selvatica;
- ricongiungimento degli animali dispersi con i proprietari;
- assistenza agli animali da affezione nelle aree di accoglienza e, più in generale, nell’ambito delle attività di delocalizzazione della popolazione;
- donazioni di alimenti e farmaci per animali;
- assistenza zooiatrica nelle aree colpite da un disastro;
- tutela del benessere degli animali da reddito in situazione di emergenza.
Probabilmente si tratta di una lista incompleta, ma essa rappresenta una sfida per il servizio veterinario pubblico, afflitto dal rischio di un forte ridimensionamento nei prossimi anni, e che anche per questa ragione non deve chiudersi nell’autoreferenzialità. È una sfida per gli ordini professionali, che non possono limitarsi a un ruolo di spettatori, ma devono essere parte attiva per la formazione e la promozione delle capacità in questo settore. È una sfida per le Università, che non possono continuare a ignorare il tema (con poche eccezioni) nella ricerca e nel percorso degli studi pre e post laurea. È una sfida per le organizzazioni degli allevatori, che non possono solo rivendicare interventi “dopo”, ma devono essere attori protagonisti della prevenzione. È una sfida per le associazioni per la tutela degli animali, che non devono operare come controparte del servizio pubblico, ma invece partecipare al tavolo della pianificazione, nel rispetto delle diverse competenze e autonomie.
Dovranno essere affrontate questioni etiche, perché non siamo in grado di salvare tutti gli animali in tutte le circostanze. Dovranno essere affrontate questioni operative, perché le procedure esistenti non ci bastano. Dovranno essere affrontate questioni organizzative e finanziarie, perché non si possono fare le grandi riforme a costo zero.
Se avremo il coraggio di metterci tutti in discussione e di affrontare un accidentato ma necessario percorso di collaborazione, riusciremo effettivamente a costruire un “sistema”, parola abusata ma in questo caso adeguata. Allora, nessun obiettivo sarà irraggiungibile. E, come disse qualcuno, se una cosa si può sognare, si può anche realizzare.